L’amatissimo Cesare Cremonini canta …“In un mondo di Eroi nessuno vuole essere Robin” e i frizzantissimi Pinguini tattici nucleari invece rimandano con una divertentissima strofa … “In un mondo di John e di Paul io sono Ringo Starr” … Quando mi capita di sentire queste strofe musicali, mi scappa sempre un sorriso ironico e divertito, ma subito dopo comincio a riflettere.
Infatti e’ vero, viviamo nella società dell’apparenza! Tutti vorrebbero essere l’eroe di turno e nessuno vuole essere il braccio destro dell’eroe, quello che lo accompagna nelle avventure con tutta la sua personalità, pur rimanendo defilato e in secondo piano.
Figuriamoci poi, se nessuno vuole essere “Robin” e se qualcuno vive addirittura con disagio l’essere “Ringo Starr” … pur essendo entrambi personaggi che viaggiano sul “carro del vincitore” … chi potrebbe voler indossare i panni di colui che ha sperimentato l’errore e il fallimento?
Partiamo proprio da questo punto … Dall’ “indossare i panni”.
Compiuto un errore o vissuto un fallimento, si tende ad identificarsi con esso, diventando così “la persona fallita”. Il personaggio fallito a tutti gli effetti. Ci si sente come marchiati e stigmatizzati a livello sociale e tutto questo ha un grande impatto sulla nostra autostima.
Il presupposto da cui dobbiamo partire è però che tutti commettiamo degli errori: molto banalmente, si apprende per errori e tentativi.
Non identificarsi con l’errore, pertanto, è ciò che fa la differenza.
Riuscire a non identificarsi con l’errore (e con la concezione negativa che culturalmente si associa ad esso, in particolar modo nei paesi di cultura cattolica), ci rende abili anche nella gestione delle emozioni legate a questa esperienza – come la vergogna, la paura ed il senso di inutilità.
Queste emozioni, per l’appunto, devono essere vissute come transitorie (non trasformarsi in stato d’animo) e diventare esse stesse fonte di apprendimento.
Riuscire a mantenere la lucidità e la centralità necessarie per considerare l’errore come un’esperienza, un evento esterno – altro da noi – ci rende abili ad osservarlo, ad interpretarlo, a verificarlo, affinchè nella prossima occasione, il nostro comportamento possa diventare più efficace rispetto all’obiettivo che intendiamo raggiungere.
Dunque, noi “non siamo il fallimento”nè “la persona fallita”. Siamo solo la persona che ha momentaneamente sperimentato un fallimento per poter avere la possibilità di performare meglio alla prossima occasione.
E’ così che il fallimento si trasforma in un’occasione di crescita e di evoluzione.
Conosciamo tutti i detti “sbagliando s’impara” o “a mangiare si fanno molliche”, ma non è sufficiente saperlo, bisogna trasformare questa conoscenza in azione e abilità di gestione.
Se questo ad oggi non si fa – o meglio, non trova riscontro nel comune agire – è perché, culturalmente parlando, il concetto di “fallimento” porta con sé associazioni mentali del tutto negative, ribadisco, in particolar modo nei paesi di cultura cattolica, dove il concetto di fallimento viene associato a quello di colpa, e dunque, di espiazione (da questo punto di vista i paesi di cultura protestante se la passano molto meglio!).
Alla luce di quanto detto, e’ evidente che deve essere assolutamente sostenuta la “cultura del fallimento”. Il famoso “FAIL FAST AND FAIL OFTEN” (concetto derivato dal mondo IT della progettazione dei sistemi), ossia, “fallire velocemente e fallire spesso” al fine di imparare dagli errori mentre si procede verso un obiettivo ben definito. Laddove, chiaramente, il fallimento che viene sostenuto è un fallimento responsabile e sostenibile.
E’ impensabile immaginare un successo “al primo colpo”, che non sia stato preceduto da molteplici tentativi per saggiare il modo migliore di fare una determinata cosa (dalla realizzazione di un prodotto/servizio da lanciare sul mercato, alla ricerca della “relazione funzionante” nella propria vita privata).
Si può certamente sostenere che il fallimento è un passo necessario per accedere al successo, un vero e proprio requisito del successo. Se non si fallisce, vuol, dire che non si è “osato” abbastanza, che non si è innovato e che ci si è mossi sempre all’interno del recinto delle “regole note”. Ma ricordate, le regole vanno bene, danno certezze e procedure infallibili … fin tanto che non cambia qualcosa all’interno dello scenario.
Uscire fuori dalle regole dunque – cosa che si può fare allenando la creatività ed il pensiero laterale – ci permette di “guardare oltre gli orizzonti”, di aprire la mente e … di trovare quella fortunata “eccezione che conferma la regola” .
Personalmente parlando ho una particolare simpatia per il termine “sperimentare” piuttosto che “fallire”, ma la sostanza è la stessa: bisogna fare esperimenti e procedere per tentativi, con l’obiettivo di verificare e saggiare quale, tra le varie opzioni e procedure, è quella che ci conduce in modo più efficiente verso la meta.
Questo, di fatto, ci introduce al ciclo di Deming rappresentato dall’acronimo inglese PDCA:
Plan = Pianificare
Do = Fare
Check = Verificare
Act = Agire
Il ciclo di Deming – che diffonde, per l’appunto, la cultura della Qualità – è una procedura, un metodo di gestione, che prevede le 4 suddette fasi e che viene applicato per il controllo e il miglioramento continuo dei processi e dei prodotti.
Fondamentalmente il ciclo di Deming prevede che l’obiettivo venga scomposto in obiettivi più piccoli, da gestire con maggiore facilità. Segue una pianificazione a breve termine di alcune attività necessarie a raggiungere i micro-obiettivi – settimanale e mensile – (PLAN) e, dopo l’esecuzione delle stesse (DO) secondo timing pianificato, è previsto che venga effettuata un’attività di valutazione (Check) del processo (che sia un prodotto o una strategia) per, eventualmente, riadattare velocemente la tattica (ACT).
Questo ciclo, dunque, attraverso la sperimentazione, ci mette nelle condizioni di fallire velocemente e spesso per imparare dai nostri errori. Questo strumento può essere facilmente utilizzato tanto in ambito professionale, quanto nella propria vita privata. Ovunque vi sia un obiettivo da raggiungere, qualunque esso sia.
E’ dunque fondamentale testare e sperimentare – con coraggio misurato e rischio calcolato – al fine di imparare, crescere e avvicinarsi al successo.
E’ chiaro che il rischio va valutato e la possibilità di fallimento va presa in considerazione e pertanto devono essere state previste le risorse necessarie per fronteggiarlo e per arginarne le conseguenze. In questo, una buona intelligenza emotiva farà lavorare a pieno regime l’emozione della paura che, laddove fluirà in modo sano, non sarà bloccante ma sarà puro intuito che ci salvaguarderà da scenari disastrosi (ad es. prevedendo le giuste risorse e alleanza da attivare piuttosto che procedure alternative).
Il passaggio fondamentale è quello di abbattere la paura di sbagliare, quella paura che ci trattiene nella nostra zona di comfort, laddove tutto è noto e familiare, tutto è sotto controllo e all’interno delle nostre aspettative ben misurate.
Per uscire dalla nostra zona di comfort dunque è necessario avere il coraggio di sperimentare, e questo avviene nella misura in cui abbiamo operato sui nostri pensieri, accogliendo un nuovo concetto di errore e fallimento, che non è ciò che ci rende dei falliti ,ma ciò che ci dà la possibilità di apprendere e di crescere, avvicinandoci sempre più al successo, tanto nella vita professionale che in quella privata.
Ma perché esiste la paura di sbagliare?
Questo è un punto molto interessante che affronteremo nel nostro prossimo appuntamento.
Voi nel frattempo, potete esercitarvi un poco realizzando una lista di tutte le cose utili che avete appreso dai vostri insuccessi.
Buon lavoro.